I film del grande schermo

a cura di Franco La Magna

Viva la libertà (2013) di Roberto Andò. Il siciliano Roberto Andò sogna una sinistra che non c’è e lo fa con il surreale apologo morale di “Viva la libertà”, affidando ad un “matto” (più savio dei savi) il repechage d’una sinistra allo sbando, “miracolosamente” in risalita dopo la sostituzione dell’ingessato segretario in crisi del maggior partito d’opposizione (in fuga in Francia) con il gemello bontempone-saggio. Le “verità” sciorinate da quest’ultimo “Kagemusha” politico – fattiva ombra del guerriero (Kurosawa docet) – al popolo annichilito dai professionisti della menzogna (ogni riferimento a fatti o persone non è puramente casuale) riportano il partito al 66% (si salvi chi può da maggioranze bulgare, abominevole sogno “grillino”) e alla fine il “saggio” rientrato in Italia capisce l’antifona e s’ingegna a dare di “matto”. Non manca l’amour (una vecchia fiamma bilingue – innamorata dei gemelli omozigoti – emigrata in Francia e sposata con un regista di grido, cui s’aggiunge la giovane componente d’una troupe cinematografica incantata dal fascino silente del segretario, improvvisatosi sul set aiuto-attrezzista). Il Cupido gerontofilo è accompagnato da visioni “acquatiche” in un’amniotica piscina. La realtà però è altra e il sogno di Andò svapora all’indomani delle recenti elezioni politiche. Tratto dal romanzo “Il trono vuoto”  dello stesso eclettico Andò (Premio Campiello, opera prima) – che ovviamente lo sceneggia come esige l’autorialità (insieme a Angelo Pasquini) – “Viva la libertà” ammonisce senza pedanteria con il suo Giano bifronte la vecchia politica lacera e polverosa per lanciare un messaggio ormai chiaro a tutti, esclusi forse i blindati di Montecitorio. Formidabile l’intero cast, su cui svetta, more solito, la recitazione di Servillo.

 

Il grande e potente OZ (3D) di Sam Raimi. Il grande e potente Oz questa volta è ancor più millantatore e spaccone dell’originale firmato da Victor Fleming nel 1939, protagonista Judy Garland, saltellante e scanzonata insieme agl’indimenticabili personaggi dello Spaventapasseri, dell’Uomo di Latta e del Leone tremebondo, accompagnata last but non least dal celeberrimo brano musicale “Over the rainbow”. Qui lo sfrontato gradasso nutre per il sesso cosiddetto “debole” una passione inestinguibile e per questo si provvede a circondarlo di donne bellissime, tutte disponibile e tutte rivelatesi, nel magico paese di Oz, streghe. Maquillage robusto anche alla pittoresca compagnoneria che lo segue on the road (una fedele scimmietta alata adibita a lavori di facchinaggio, una deliziosa bambolina di porcellana) cui s’aggiungeranno via via altri personaggi chiave, per così dire “stanziali”, ma indispensabili a debellare l’attacco aereo del tandem delle streghe germane cattive, Theodora ed Evanora (l’altra, la bionda Glinda, è quella buona, ma questo verrà svelato nel corso del film). Da quando è apparso “Hugo Cabret”, pare che le origini del cinema siano diventate di moda: Tornatore ruba il complicato giocattolo meccanico a Scorsese, Sam Raimi (regista del Michigam, autore della trilogia su “Spiderman” e di tanti rabbrividenti horror, tra cui un paio di “case” terrificanti) fa spiegare al suo “Il grande e potente Oz”, bellimbusto e rubacuori, il meccanismo che poi affinato starà alla base delle proiezioni cinematografiche e che qui (realizzato) servirà renderlo spaventoso  su uno “schermo” di fumi, con conseguente morte (per una) e fuga su classica scopa (per un’altra) delle megere. Dunque la fortuna di Oz – paese e “mago” inventati dall’americano Frank L. Baum, che nel corso dei primi due decenni del secolo scorso scrisse ben 14 romanzi per bambini  ambientati in un regno immaginario – prosegue (per quanto “adattata” all’odierno spettatore) anche oggi. E i riferimenti (o le cosiddette citazioni cinefile) non si esauriscono nel confronto con l’originale. Del resto si tratta d’un inconfondibile film Disney – a cui la potente casa di produzione americana vi appone inevitabilmente il suo marchio doc – prodotto inoltre anche dallo stesso finanziatore dei film di Tim Burton. Dell’uso, ma ancor più dell’abuso, del 3D meglio tacere. Qui poi, a parte qualche effetto per suscitare lo stupore dei bimbi, del tutto inutile. Moderatamente divertente ma senza trovate geniali. Non diventerà un cult come il film di Fleming.

 

Pinocchio (2012) di Enzo D’Alò. Geppetto ha la parrucca, la fata Turchina è una bimba della quale il  burattino s’innamora (come nell’originale), un cane al servizio della legge gli diventa amico e il paese dei balocchi sta in un’isola raggiungibile in battello. Tra invenzioni e fedeltà alla collodiana stesura originaria  ecco l’atteso, edulcorato e  coloratissimo “Pinocchio” di D’Alò che insieme a Marino riscrive la celeber-rima ed immortale novella di Collodi, in qualche modo “modernizzandola”, sfrondandola ellitticamente e rabbonendo il protagonista, che resta sì dispettoso ma mantenendo ancor più quel sostrato d’ingenui-tà e bontà misto ad un ribellismo mai cattivo, che alla fine gli faranno ritrovare se stesso e il buon Gep-petto per diventare un bimbo perbene. Spirito della fiaba, però, rispettato nonostante l’estro fantasioso di D’Alò.  Riferimenti pittorici (il regista dice De Chirico rivendicando anche una “fedeltà” ampiamente tradita da Disney,  da cui però ha attinto l’idea d’una ambientazione non indigente) e bell’atmosfera italiana strapaesana. Le avventure del burattino sono accompagnate dalle scoppiettanti note del compianto Lucio Dalla. Coproduzione italo-franco-belga-lussemburghese. Tante le voci conosciute.

 

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